Scultura / Frammento

Nel 1855 il reverendo Marshall mostrò nel corso di una lezione una sua fotografia scattata a Parigi, nella quale appariva Notre Dame. Invitava i suoi allievi a porre l’attenzione su un particolare preciso, la presenza di alcune sculture sopra la porta ovest della cattedrale. Cosa poteva esserci di più sensazionale e rivoluzionario della possibilità di ammirare con i propri occhi il lavoro e il genio dello scultore? Cos’altro poteva essere più vero, come dichiara lui stesso, della vera impressione dell’oggetto mostrato?

A pochi anni dal suo avvento come invenzione, la fotografia  rivela da subito il legame profondo che la unirà spiritualmente e materialmente alla scultura, prima come ancella al suo servizio con le  riproduzioni d’arte e la sostituzione dei modelli poi, nei primi decenni del Novecento, come interpretazione artistica e creazione di una realtà altra. Uno dei “mondi” in cui le due arti convivono è l’antico, non inteso soltanto come studio o imitazione nella forma, ma soprattutto come linfa e impulso per restituire vita, universalità e un aspetto “divino” alle moderne figure. Come se la produzione artistica moderna non potesse svelarsi sinceramente senza la rievocazione magica dello spirito dell’antichità, che spesso si presentava agli occhi contemporanei sotto forma di frammenti di corpi e culture, non necessariamente da ricostruire ma da poter immaginare.

Il frammento è nella scultura di Auguste Rodin una condizione non ricomponibile con nessun tassello, non completabile matericamente. Rodin ha la capacità di infondere in ogni parte della superficie delle sue opere, “l’autonomia e la pienezza di un tutto” come scrive Rainer Maria Rilke. I corpi vibranti che prendono vita dalle sue mani sono, a volte, corpi incompleti nella fattezza fisica,  a volte senza testa (L’Homme qui marche) e senza braccia (Meditation), o mancanti degli arti inferiori (Torso), ma incredibilmente compiuti, (in)finiti. Il tutto artistico non deve coincidere necessariamente con il tutto usuale dell’oggetto, un frammento di corpo scolpito, non è un cadavere né un corpo mutilato. Gli occhi non patiscono l’assenza di alcun elemento corporeo, perché i raccordi fisici presenti in esso rispettano un equilibrio assoluto che non vuole dipendere dall’integrità come condizione di bellezza. Come i corpi danzanti, le figure incomplete si mostrano nella metamorfosi del loro movimento e nella continua variazione prospettica data dall’azione del soggetto, a dispetto dell’immobilità dell’osservatore, fermo, lui sì, come una statua, o come un’immagine.

I frammenti delle sculture delle divinità dell’acropoli di Atene e i resti dei frontoni del Partenone, sono modelli esemplari di questa lezione, che vengono fotografati sia nel loro sito originario, come dall’americano William James Stillman che nel 1868 scatta alcune immagini (ventisei delle quali pubblicate l’anno seguente nel libro The Acropolis of Athens: illustrated picturesquesly and architecturally by photographs, reproduced from the originals by W. J. Stillman) delle più celebri rovine greche da audaci prospettive, allora inusuali che solo uno sguardo svincolato dalla fotografia turistico/commerciale poteva, o meglio voleva, cogliere. O ancora i frammenti di un antico che si muove incarnandosi nelle vesti di Atena o Dioniso tra le grandi sale dei poli museali, primo fra tutti il British Museum di Londra (foto di Stephen Thompson) o il Louvre parigino, mete di “pellegrinaggio” e di studio di intellettuali, danzatori e artisti, tra cui Rodin e dei suoi allievi.

La possibilità della fotografia di isolare soltanto frammenti o particolari di un’opera d’arte sembra amplificare l’impressione dell’azione del tempo sulle figure e del non finito e potenziarne la fruizione, agendo con più forza sull’immaginazione. Questo è quanto muove, e non solo nel pensiero, Clarence Kennedy intorno alla tomba quattrocentesca di un cardinale del Portogallo, opera dello scultore Antonio Rossellino. Il fotografo realizza nel 1933 una serie di immagini che restituiscono non una visione d’insieme del complesso architettonico ma bensì uno sguardo frammentato, che va più vicino del guardare comune, che entra nella materia, scruta nei dettagli. Dettagli che divengono sculture nuove e compiute in se stesse, non parti di un organismo più grande, così come i dannati dell’inferno dantesco di Rodin nelle immagini di Carol-Marc Lavrillier.

Negli stessi anni, i surrealisti non rimangono insensibili al fascino segreto e immaginifico del frammento e della scultura. Agli inizi del 1930 pubblicano sulla rivista d’arte di evocazione surrealista «Minotaure» alcune immagini realizzate dal fotografo ungherese Brassaï nello studio e nel giardino dello scultore Aristide Maillol. In The dress in garden Maillol si perde ogni riferimento spazio/temporale, quello che si staglia silenzioso tra la natura potrebbe essere un corpo di un’epoca antica, catapultato in un mondo moderno, provocando una sorta di effetto straniante per lo spettatore di questa sorta di magia. Anche nella produzione fotografica di Man Ray tornano più volte frammenti di corpi che sembrano non appartenere a quel dato momento storico, come in Target o nel suo celebre autoritratto sdraiato nel letto.

Sono evocazioni, ma anche vive apparizioni dal passato che, malgrado la loro fragilità esteriore dovuta a una materia a volte andata distrutta, altre perduta, sono presenze perfette, sacre.

Sono il canto che ha risvegliato le forze silenti dell’antichità per donarle una nuova avventura moderna. [Giordana Citti]

 

 

A proposito de La Méditation ou La Voix intérieure

Colpisce il fatto che manchino le braccia. Rodin le considerò in questo caso una soluzione troppo facile del suo compito, qualcosa di non appartenente a quel corpo teso a ravvolgersi su se stesso, senza aiuto estraneo. Subito si pensa alla Duse, quando in un dramma di D’Annunzio, dolorosamente abbandonata, tenta di abbracciare senza braccia e di trattenere senza mani. […] Riusciva a dare l’impressione che le braccia fossero qualcosa di superfluo, un ornamento, un lusso da ricchi e da smodati che si poteva gettare lontano da sé per essere totalmente poveri. In quel momento non sembrava una creatura privata di qualcosa di essenziale; piuttosto, uno che regala la sua coppa per bere da un ruscello, uno che è nudo e ancora un po’ incerto nella sua profonda nudità. Così è anche per le statue senza braccia di Rodin; non manca loro nulla di necessario. Le si considera come un qualcosa di compiuto, un tutto che non ammette integrazione alcuna. […] Rodin ha il potere d’infondere in ogni parte di questa vasta superficie vibrante l’autonomia e la pienezza di un tutto. [Rainer Maria Rilke, Su Rodin, traduzioni di Claudio Groff e Olimpia Sartorelli, Abscondita, Milano 2009, pp. 28-30]

* * *

One key characteristic of Rodin’s art is a tendency to energise the relation of the sculpted figure to its physical surroundings. Both his single figures and his group compositions “impinge actively on the space around them” with projections away from the body’s core, with a “lively flow of surface” that disrupts the literal boundaries of the sculpted figure, and through the fragmentation of body parts, which invites the viewer imaginatively to complete his figures in the voids around them. [Juliet Bellow, Beyond movement: Auguste Rodin and the dancers of his time, in Rodin and dance: The Essence of Movement, Paul Holberton Publishing, Londra 2016, p. 47]

 

 

Possiamo chiamare questi frammenti di discorso delle figure. La parola non va intesa nel senso retorico, ma piuttosto nel senso ginnico e coreografico; […] il gesto del corpo colto in movimento, e non già contemplato in stato di riposo: il corpo degli atleti, degli oratori, delle statue: ciò che è possibile immobilizzare del corpo sotto sforzo. Lo stesso si può dire dell’innamorato in preda alle sue figure: esso si dimena in uno sport un po’ pazzo, si prodiga, proprio come l’atleta; fraseggia, come l’oratore; è cristallizzato, siderato in un ruolo, come una statua. La figura è l’innamorato al lavoro. [Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, traduzione di Renzo Guidieri, Giulio Einaudi editore, Torino 2014, p. 5]

* * *

And Brancusi’s interest in expressing parts of the body as fragments that tend toward radical abstractness also testifies to a loss of site, in this case the site of the rest of the body, the skeletal support that would give to one of the bronze or marble heads a home. In being the negative condition of the monument, modernist sculpture had a kind of idealist space to explore, a domain cut off from the project of temporal and spatial representation, a vein that was rich and new and could for a while be profitably mined. [Rosalind Krauss, Sculpture in the Expanded Field, in «October», vol. 8, The MIT press, Cambridge 1979, p. 34]

* * *

Finché si è trattato di rendere eterna la forma umana, si è confidato nella pietra, immagine empirica dell’eternità. Ma l’eterno è scivolato dietro al mondo, noi non ignoriamo più di essere storici; il marmo rivela improvvisamente il suo difetto: inalterabile in apparenza, un cedimento segreto lo consuma, questo puro indurimento dello spazio è fatto di parti separabili. Se si vuole inscrivere l’unità di una fisionomia in questo eterno sgretolamento, si decompone. Peggio ancora: poiché l’artista deve lavorare parte per parte una sostanza indefinitamente divisibile, deve precedentemente spezzare la percezione del modello […] .

Negli scavi intrapresi recentemente a Marsiglia qualcuno mi diceva ieri che è stato trovato un “seno delizioso”. Un seno delizioso: è rotolato come un frutto maturo, che a malapena si teneva al ramo. Non è necessario il corpo della Dea. Si può sognarlo a partire da quel seno. [Jean-Paul Sartre, Pensare l’arte, traduzione e cura di Francesca Marcarino, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2008, pp. 79-80]

 

 

 

 

 

Nel 1855 il reverendo Marshall mostrò nel corso di una lezione una sua fotografia scattata a Parigi, nella quale appariva Notre Dame. Invitava i suoi allievi a porre l’attenzione su un particolare preciso, la presenza di alcune sculture sopra la porta ovest della cattedrale. Cosa poteva esserci di più sensazionale e rivoluzionario della possibilità di ammirare con i propri occhi il lavoro e il genio dello scultore? Cos’altro poteva essere più vero, come dichiara lui stesso, della vera impressione dell’oggetto mostrato?

A pochi anni dal suo avvento come invenzione, la fotografia  rivela da subito il legame profondo che la unirà spiritualmente e materialmente alla scultura, prima come ancella al suo servizio con le  riproduzioni d’arte e la sostituzione dei modelli poi, nei primi decenni del Novecento, come interpretazione artistica e creazione di una realtà altra. Uno dei “mondi” in cui le due arti convivono è l’antico, non inteso soltanto come studio o imitazione nella forma, ma soprattutto come linfa e impulso per restituire vita, universalità e un aspetto “divino” alle moderne figure. Come se la produzione artistica moderna non potesse svelarsi sinceramente senza la rievocazione magica dello spirito dell’antichità, che spesso si presentava agli occhi contemporanei sotto forma di frammenti di corpi e culture, non necessariamente da ricostruire ma da poter immaginare.

Il frammento è nella scultura di Auguste Rodin una condizione non ricomponibile con nessun tassello, non completabile matericamente. Rodin ha la capacità di infondere in ogni parte della superficie delle sue opere, “l’autonomia e la pienezza di un tutto” come scrive Rainer Maria Rilke. I corpi vibranti che prendono vita dalle sue mani sono, a volte, corpi incompleti nella fattezza fisica,  a volte senza testa (L’Homme qui marche) e senza braccia (Meditation), o mancanti degli arti inferiori (Torso), ma incredibilmente compiuti, (in)finiti. Il tutto artistico non deve coincidere necessariamente con il tutto usuale dell’oggetto, un frammento di corpo scolpito, non è un cadavere né un corpo mutilato. Gli occhi non patiscono l’assenza di alcun elemento corporeo, perché i raccordi fisici presenti in esso rispettano un equilibrio assoluto che non vuole dipendere dall’integrità come condizione di bellezza. Come i corpi danzanti, le figure incomplete si mostrano nella metamorfosi del loro movimento e nella continua variazione prospettica data dall’azione del soggetto, a dispetto dell’immobilità dell’osservatore, fermo, lui sì, come una statua, o come un’immagine.

I frammenti delle sculture delle divinità dell’acropoli di Atene e i resti dei frontoni del Partenone, sono modelli esemplari di questa lezione, che vengono fotografati sia nel loro sito originario, come dall’americano William James Stillman che nel 1868 scatta alcune immagini (ventisei delle quali pubblicate l’anno seguente nel libro The Acropolis of Athens: illustrated picturesquesly and architecturally by photographs, reproduced from the originals by W. J. Stillman) delle più celebri rovine greche da audaci prospettive, allora inusuali che solo uno sguardo svincolato dalla fotografia turistico/commerciale poteva, o meglio voleva, cogliere. O ancora i frammenti di un antico che si muove incarnandosi nelle vesti di Atena o Dioniso tra le grandi sale dei poli museali, primo fra tutti il British Museum di Londra (foto di Stephen Thompson) o il Louvre parigino, mete di “pellegrinaggio” e di studio di intellettuali, danzatori e artisti, tra cui Rodin e dei suoi allievi.

La possibilità della fotografia di isolare soltanto frammenti o particolari di un’opera d’arte sembra amplificare l’impressione dell’azione del tempo sulle figure e del non finito e potenziarne la fruizione, agendo con più forza sull’immaginazione. Questo è quanto muove, e non solo nel pensiero, Clarence Kennedy intorno alla tomba quattrocentesca di un cardinale del Portogallo, opera dello scultore Antonio Rossellino. Il fotografo realizza nel 1933 una serie di immagini che restituiscono non una visione d’insieme del complesso architettonico ma bensì uno sguardo frammentato, che va più vicino del guardare comune, che entra nella materia, scruta nei dettagli. Dettagli che divengono sculture nuove e compiute in se stesse, non parti di un organismo più grande, così come i dannati dell’inferno dantesco di Rodin nelle immagini di Carol-Marc Lavrillier.

Negli stessi anni, i surrealisti non rimangono insensibili al fascino segreto e immaginifico del frammento e della scultura. Agli inizi del 1930 pubblicano sulla rivista d’arte di evocazione surrealista «Minotaure» alcune immagini realizzate dal fotografo ungherese Brassaï nello studio e nel giardino dello scultore Aristide Maillol. In The dress in garden Maillol si perde ogni riferimento spazio/temporale, quello che si staglia silenzioso tra la natura potrebbe essere un corpo di un’epoca antica, catapultato in un mondo moderno, provocando una sorta di effetto straniante per lo spettatore di questa sorta di magia. Anche nella produzione fotografica di Man Ray tornano più volte frammenti di corpi che sembrano non appartenere a quel dato momento storico, come in Target o nel suo celebre autoritratto sdraiato nel letto.

Sono evocazioni, ma anche vive apparizioni dal passato che, malgrado la loro fragilità esteriore dovuta a una materia a volte andata distrutta, altre perduta, sono presenze perfette, sacre.

Sono il canto che ha risvegliato le forze silenti dell’antichità per donarle una nuova avventura moderna. [Giordana Citti]

 

 

A proposito de La Méditation ou La Voix intérieure

Colpisce il fatto che manchino le braccia. Rodin le considerò in questo caso una soluzione troppo facile del suo compito, qualcosa di non appartenente a quel corpo teso a ravvolgersi su se stesso, senza aiuto estraneo. Subito si pensa alla Duse, quando in un dramma di D’Annunzio, dolorosamente abbandonata, tenta di abbracciare senza braccia e di trattenere senza mani. […] Riusciva a dare l’impressione che le braccia fossero qualcosa di superfluo, un ornamento, un lusso da ricchi e da smodati che si poteva gettare lontano da sé per essere totalmente poveri. In quel momento non sembrava una creatura privata di qualcosa di essenziale; piuttosto, uno che regala la sua coppa per bere da un ruscello, uno che è nudo e ancora un po’ incerto nella sua profonda nudità. Così è anche per le statue senza braccia di Rodin; non manca loro nulla di necessario. Le si considera come un qualcosa di compiuto, un tutto che non ammette integrazione alcuna. […] Rodin ha il potere d’infondere in ogni parte di questa vasta superficie vibrante l’autonomia e la pienezza di un tutto. [Rainer Maria Rilke, Su Rodin, traduzioni di Claudio Groff e Olimpia Sartorelli, Abscondita, Milano 2009, pp. 28-30]

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One key characteristic of Rodin’s art is a tendency to energise the relation of the sculpted figure to its physical surroundings. Both his single figures and his group compositions “impinge actively on the space around them” with projections away from the body’s core, with a “lively flow of surface” that disrupts the literal boundaries of the sculpted figure, and through the fragmentation of body parts, which invites the viewer imaginatively to complete his figures in the voids around them. [Juliet Bellow, Beyond movement: Auguste Rodin and the dancers of his time, in Rodin and dance: The Essence of Movement, Paul Holberton Publishing, Londra 2016, p. 47]

 

 

Possiamo chiamare questi frammenti di discorso delle figure. La parola non va intesa nel senso retorico, ma piuttosto nel senso ginnico e coreografico; […] il gesto del corpo colto in movimento, e non già contemplato in stato di riposo: il corpo degli atleti, degli oratori, delle statue: ciò che è possibile immobilizzare del corpo sotto sforzo. Lo stesso si può dire dell’innamorato in preda alle sue figure: esso si dimena in uno sport un po’ pazzo, si prodiga, proprio come l’atleta; fraseggia, come l’oratore; è cristallizzato, siderato in un ruolo, come una statua. La figura è l’innamorato al lavoro. [Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, traduzione di Renzo Guidieri, Giulio Einaudi editore, Torino 2014, p. 5]

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And Brancusi’s interest in expressing parts of the body as fragments that tend toward radical abstractness also testifies to a loss of site, in this case the site of the rest of the body, the skeletal support that would give to one of the bronze or marble heads a home. In being the negative condition of the monument, modernist sculpture had a kind of idealist space to explore, a domain cut off from the project of temporal and spatial representation, a vein that was rich and new and could for a while be profitably mined. [Rosalind Krauss, Sculpture in the Expanded Field, in «October», vol. 8, The MIT press, Cambridge 1979, p. 34]

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Finché si è trattato di rendere eterna la forma umana, si è confidato nella pietra, immagine empirica dell’eternità. Ma l’eterno è scivolato dietro al mondo, noi non ignoriamo più di essere storici; il marmo rivela improvvisamente il suo difetto: inalterabile in apparenza, un cedimento segreto lo consuma, questo puro indurimento dello spazio è fatto di parti separabili. Se si vuole inscrivere l’unità di una fisionomia in questo eterno sgretolamento, si decompone. Peggio ancora: poiché l’artista deve lavorare parte per parte una sostanza indefinitamente divisibile, deve precedentemente spezzare la percezione del modello […] .

Negli scavi intrapresi recentemente a Marsiglia qualcuno mi diceva ieri che è stato trovato un “seno delizioso”. Un seno delizioso: è rotolato come un frutto maturo, che a malapena si teneva al ramo. Non è necessario il corpo della Dea. Si può sognarlo a partire da quel seno. [Jean-Paul Sartre, Pensare l’arte, traduzione e cura di Francesca Marcarino, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2008, pp. 79-80]