Coscienza / Mascheramento

Oggetto rituale, elemento di trasformazione identitaria, simbolo delle arti sceniche e raffigurazione ricorrente delle loro lontane epoche gloriose. All’inizio del Novecento la maschera diventa il centro non solo di un fermento teatrale ma di un’attenzione collettiva che accomuna il teatro, la danza, le scienze sociali e le arti figurative. Il ritorno alla maschera testimonia un mutamento profondo nel modo di considerare il corpo e spinge a porre uno sguardo nuovo sul volto, non più sede prediletta dell’espressione. Annullare il volto e sostituirlo con i lineamenti congelati di una maschera, amplifica il corpo e la sua energia, dispiegandone in alcuni casi le forze latenti. L’oggetto maschera in questa prospettiva trova un terreno fecondo nel mondo del teatro e della danza, dove diventa motore di processi corporei, pratiche e manifestazioni.

Edward Gordon Craig, uno dei padri fondatori del teatro nel XX secolo, fa della maschera un simbolo moderno quando nel 1908 inizia a pubblicare «The Mask», rivista dedicata interamente all’arte del teatro, crocevia di collaborazioni e principale canale di diffusione delle sue idee. Coprendo il volto, veicolo del narcisismo e del temperamento personale dell’attore, la maschera diventa per Craig la chiave d’accesso verso quelli che considera i pilastri di un teatro dell’avvenire: il ritmo e il movimento legati alla dimensione divina e alle sue immagini. Le maschere sono inoltre il soggetto delle sue incisioni e costellano le pagine della rivista assieme a quelle di Ellen Thesleff, artista finlandese che collabora a «The Mask» e apprende da Craig la tecnica xilografica.

L’origine del legame fra teatro e maschera è da individuare in una dimensione ritualistica ovvero magico-cultuale. Nei primi decenni del secolo, l’antropologia osserva culture lontane nello spazio nelle cui pratiche e credenze sembrano apparire, in filigrana, le culture lontane nel tempo. Nelle danze cerimoniali degli indiani Pueblo descritte dallo storico delle immagini Aby Warburg, indossare la maschera vuol dire modificare e dilatare la propria condizione umana, per entrare in relazione con un’entità sovrannaturale affinché venga garantito cibo per la comunità o come gesto propiziatorio prima di una battaglia. Identificarsi mimeticamente con un’altra entità porta a una necessaria perdita di sé trasformando il proprio corpo in qualcos’altro. Le fotografie del fotografo ed etnologo Edward S. Curtis, realizzate in oltre trent’anni di lavoro per preservare la memoria dei nativi americani e che compongono la monumentale opera The North American Indian (venti volumi pubblicati fra il 1907 e il 1930), sono le principali testimonianze di questa dimensione extra-quotidiana.

Talvolta, la maschera nella danza perpetua il rimando tra umano e divino, rievocando in alcune esperienze emblematiche i processi mimetici dei rituali. È il caso del danzatore giapponese Michio Ito che, nello scatto di Alvin Langdon Coburn, indossa la maschera di una volpe. Il movimento catturato dal fotografo è sottile e la tensione dal busto sembra caricare l’espressione della maschera di un’intensità che traspare anche nell’immagine. Il danzatore, nelle cui coreografie confluiscono tecniche orientali e occidentali, tra cui la ritmica dalcroziana appresa nel 1912 a Hellerau, viene coinvolto nel 1916 da William Butler Yeats in At the Hawk’s Well, la prima opera del poeta ispirata ai drammi del teatro Nō. Sempre Coburn è l’autore delle fotografie in cui Ito veste il costume e la maschera del falco, che come quella della volpe sono realizzati dal disegnatore e illustratore francese Edmund Dulac.

La danzatrice tedesca Gertrud Leistikow nella coreografia Faun dance, in scena per la prima volta nell’aprile del 1911, propone ancora un altro impiego della maschera, declinandone l’uso verso la dimensione del grottesco – Groteske era infatti il termine con cui indicava tutte le sue danze mascherate. Inoltre, interpretando un ruolo per tradizione maschile, per di più con un costume che la copre quasi totalmente, fa emergere l’ulteriore possibilità della maschera di poter modificare o annullare l’identità sessuale del corpo che la indossa.

Anche Mary Wigman fa della maschera una vera e propria istanza artistica. L’11 febbraio 1914 a Monaco, nel contesto della prima dimostrazione pubblica del lavoro di Rudolf Laban e dei suoi allievi, va in scena il suo assolo, simbolo della danza espressionista tedesca: Hexentanz (la danza della strega), interamente eseguita a terra, con il volto coperto da una maschera, accompagnata esclusivamente da strumenti a percussione. Charlotte Rudolph, una delle maggiori fotografe di danza che con Wigman instaura una collaborazione ventennale, realizza delle immagini in cui la danzatrice appare come trasfigurata: la maschera diventa la soglia verso una sfera irrazionale.

Al pari di indossare un volto fittizio, anche altre modalità di alterazione della fisionomia del volto proiettano il corpo in un spazio altro, caricandolo di un linguaggio enigmatico, imperscrutabile, sacro. Il trucco e un minuzioso lavoro sulla mimica trasformano in maschera il viso stesso: ciò è evidente nello scatto del Dover Street Studio di Londra realizzato nel 1913, che coglie Vaclav Nižinskij, interprete di punta dei Ballets Russes, nel costume di Petruška, il burattino musicato da Igor Stravinskij e coreografato da Michel Fokine nel 1911. I ritratti sono oggetti interessanti da osservare, soprattutto quando il soggetto raffigurato è un danzatore, poiché lo privano del suo corpo e il movimento si condensa nello spazio del volto. In questo caso è nell’intensità dello sguardo amplificato dai segni dipinti sul viso: come rapito da un’allucinazione il danzatore non sembra tanto guardare in camera, quanto piuttosto attraversarla, penetrando direttamente negli occhi dell’osservatore.

Ancor più significativo l’uso del trucco nella ricerca di un altro esponente cruciale della danza espressionista tedesca, Harald Kreutzberg, che esplora nelle proprie danze pantomimiche figure demoniache e oscure con le quali aggancia ed esplora la sfera irrazionale. Lui stesso crea i propri costumi, spesso tuniche enormi, cupe, o che richiamano un immaginario esotico indefinito, da cui emerge il suo corpo reso bianco dal trucco.

Anche Hélène Vanel, danzatrice formatasi con Margaret Morris e artista eclettica legata al movimento surrealista intorno alla fine degli anni Trenta, realizzava le sue maschere. I suoi ritratti di fotografi non identificati rimangono misteriosi, disseppelliti solo nel 2010 dall’artista visiva Jessica Warboys nella Bibliothèque Smith-Lesouef a Nogent-sur-Marne.

La fotografia, come mostrano questi esempi, non è solo testimone di un processo controllato dal danzatore o dall’attore, ma è essa stessa coinvolta in tale processo. I fotografi sono sia spettatori di ciò di cui il danzatore è artefice, che co-artefici nel momento in cui riescono a mantenere attivo nelle proprie immagini un riverbero dell’azione osservata. Rudolf Koppitz, esponente della foto-secessione in Austria, specializzato nella cattura del movimento (Bewegungsstudie) e nel nudo, e Hedy Pfundmayr, danzatrice e attrice cinematografica austriaca, hanno collaborato nel 1928 esplorando a fondo questa capacità di riattivare e trasporre nel processo fotografico l’energia che lega maschera e corpo. Il fotografo riprende movimenti e pose di Pfundmayr con la maschera di Elettra, mettendo in risalto lo spazio che circonda la danzatrice, reso vivo dalle luci e dalle ombre che sovrastano e inglobano il corpo. L’immagine fotografica, così come la maschera, si fa vero e proprio campo di forze.

L’uso espressivo della luce gioca un ruolo essenziale nella produzione del Barone Adolf de Meyer, fotografo vicino al gruppo americano della foto-secessione animato da Alfred Stieglitz, e padre della fotografia di moda. La fotografia Dance Study, datata circa 1912, è uno dei pochissimi nudi realizzati dal fotografo. La maschera è un guscio essenziale di stoffa che copre interamente la testa accentuando fortemente il busto e le braccia nudi. La dimensione onirica evocata dall’immagine grazie alle luci morbide da cui emerge il corpo, ai valori chiaroscurali tenui e a un micromosso tipici della tecnica pittorialista, intensificano l’erotismo che pervade l’immagine.

La maschera non nasconde più il volto ma rivolge a lui i suoi occhi vuoti in alcune fotografie di nudo che Germaine Krull realizza negli anni Venti. Nella serie nominata Spuk, del 1923, una maschera è affissa al muro e il corpo nudo di Berthe Krull, sorella della fotografa, ne è dunque separato, ma i tratti stilizzati della maschera, la sua fissità, i suoi colori entrano in sintonia con la tensione del corpo e, viceversa, il movimento del corpo infonde vita a un oggetto di per sé inanimato.

 

As with his move ment, so is it with the expression of his face. The mind struggling and succeeding for a moment, in moving the eyes, or the muscles of the face whither it will;… the mind bringing the face for a few moments into thorough subjec tion, is suddenly swept aside by the emotion which has grown hot through the action of the mind. Instantly, like lightening, and before the mind has time to cry out and protest, the hot passion has mastered the actor’s expression. It shifts and changes, sways and turns, it is chased by emotion from the actor’s forehead between his and down to his mouth; now he is entirely at the mercy of emotion, and crying out to it: “Do with me what you will!” his expression runs a mad riot hither and thither, and lo! “nothing is coming of nothing.” [Edward Gordon Craig, The Actor and the Über-Marionette, «The Mask», vol. 1, n. 2, April 1908, p. 4]

* * *

Mascherarsi, truccarsi, tatuarsi non significa, come ci si potrebbe immaginare, acquistare un altro corpo, un po’ più bello, più decorato, più facilmente riconoscibile; tatuarsi, truccarsi, mascherarsi è certamente un’altra cosa, è fare entrare il corpo in comunicazione con poteri segreti e forze invisibili. La maschera, il segno tatuato, il trucco, depositano sul corpo tutto un linguaggio: tutto un linguaggio enigmatico, tutto un linguaggio cifrato, segreto, sacro, che richiama su quel corpo la stessa violenza del dio, la potenza sorda del sacro o la vivacità del desiderio. La maschera, il tatuaggio, il trucco mettono il corpo in un altro spazio, lo fanno entrare in un luogo che non ha immediatamente luogo nel mondo e fanno di quel corpo il frammento di uno spazio immaginario che comunicherà con l’universo delle divinità o con l’universo altrui. Saremo afferrati dagli dei o dalla persona che abbiamo appena sedotto. Comunque la maschera, il tatuaggio, il trucco sono operazioni con cui il corpo viene strappato al proprio spazio e proiettato in un altro. [Michel Foucault, Utopie Eterotopie, a cura di Antonella Moscati, Cronopio, Napoli 2020, pp. 39-40 (conferenza radiofonica per France Culture del 21 dicembre 1966)]

 

Le danze mascherate, se a tutta prima ci appaiono come un contrappunto festivo alla sua vita quotidiana, vanno viste in realtà come pratiche magiche tese a garantire il cibo alla collettività. La danza mascherata, che noi siamo abituati a considerare come puro gioco, è dunque per sua natura una pratica seria, si può dire guerresca, nella lotta per la vita. […] Il cacciatore o l’agricoltore, mascherandosi, ovvero identificandosi mimeticamente con la loro preda […], credono di carpire in anticipo, grazie a una misteriosa metamorfosi mimica, quello che nel contempo si sforzano di ottenere anche con il loro razionale, duro lavoro quotidiano. La ricerca collettiva del cibo è quindi schizoide: magia e tecnica vengono qui a interagire. […]
Quando ad esempio un indiano imita nel suo costume mimetico le sembianze e i movimenti di un animale, entra in esso senza finalità giocose, bensì per carpire magicamente alla natura, trasformando il suo essere, qualcosa che mai spererebbe di ottenere senza ampliare e modificare la sua condizione umana.
In questa danza pantomimica l’imitazione è dunque un atto cultuale, una perdita di sé, un consegnarsi fideistico a un’entità estranea. [Aby Warburg, Il rituale del serpente, Adelphi, Milano 1998, pp. 26-29 (conferenza del 1923. Prima edizione 1939)]

* * *

The face of the speaker should be as much a work of art as the lines that he speaks or the costume that he wears, that all may be as artificial as possible. […] The mask, apart from its beauty, may suggest new situations at a moment when the old ones seem exhausted. [W. B. Yeats, Four Plays for dancers, The MacMillan Company, New York 1921, p. vi]

* * *

Le masque fait parvenir interprète et auditoire au point culminant d’une cérémonie, longuement préparée en vue de se concilier des forces bénéfiques ou de vaincre des démons, de capter des énergies d’un monde à l’autre. A travers le masque passe le souffle d’un au-delà irrationel, et dans la concentration d’une communauté tout entière livrée à l’accomplissement d’une rite, contemplant à travers des images une série de conc

epts connus d’elle seule […]. Terminé le rituel, disparue la communauté, l’object masque devrait disparaïtre. [Introduzione al volume Denis Bablet, Odette Aslan, Le masque. Du rite au théâtre, CNRS Editions, Paris 2005, p.13]

 

Il volto provvisorio

[…] Ma esiste un’ulteriore ipotesi per arrivare all’extra-quotidiano del volto: la maschera. Quando l’attore indossa una maschera è come se facesse uso di un corpo decapitato: rinuncia alla possibilità di tutti i movimenti e di tutti i giochi che la muscolatura facciale è in grado di fare. Scompare, con la maschera, l’enorme ricchezza del volto e si crea una tale resistenza fra il volto finto […] e il corpo dell’attore, che il fatto di trasformare il proprio viso in qualcosa di apparentemente morto può apparire come una decapitazione. […] Con piccole oscillazioni, misuratissime, con l’inclinare la maschera in determinati modi, si sfrutta l’incidenza della luce che cambia così le ombre: e un’appropriata tensione di tutta la spina dorsale riesce a conferire alla maschera un’altra possibilità di vita, quella che la sua qualità di oggetto sembra negargli a priori. [Eugenio Barba, Nicola Savarese, L’arte segreta dell’attore. Un dizionario di antropologia teatrale, Edizioni di Pagina, Bari 2011, pp. 152-153]

 * * *

Why should a dancer use a mask? Always when his creative urge causes a split process in him, when his imagination reveals the image of an apparently alien figure, which, as a part of his totality, compels the dancers to a certain kind of metamorphosis. […] The mask tries to blus the demarcation between the realistic and irrational levels. It can wipe out the shape of a human face and turn it into ghostlike features through schematic interpretations, or it can conjure up demonic features of man’s darkest fantasy in its exaggeration of any meaning form. [Mary Anne Newhall, Mary Wigman, Routledge, London/New York 2009, p. 106]

Oggetto rituale, elemento di trasformazione identitaria, simbolo delle arti sceniche e raffigurazione ricorrente delle loro lontane epoche gloriose. All’inizio del Novecento la maschera diventa il centro non solo di un fermento teatrale ma di un’attenzione collettiva che accomuna il teatro, la danza, le scienze sociali e le arti figurative. Il ritorno alla maschera testimonia un mutamento profondo nel modo di considerare il corpo e spinge a porre uno sguardo nuovo sul volto, non più sede prediletta dell’espressione. Annullare il volto e sostituirlo con i lineamenti congelati di una maschera, amplifica il corpo e la sua energia, dispiegandone in alcuni casi le forze latenti. L’oggetto maschera in questa prospettiva trova un terreno fecondo nel mondo del teatro e della danza, dove diventa motore di processi corporei, pratiche e manifestazioni.

Edward Gordon Craig, uno dei padri fondatori del teatro nel XX secolo, fa della maschera un simbolo moderno quando nel 1908 inizia a pubblicare «The Mask», rivista dedicata interamente all’arte del teatro, crocevia di collaborazioni e principale canale di diffusione delle sue idee. Coprendo il volto, veicolo del narcisismo e del temperamento personale dell’attore, la maschera diventa per Craig la chiave d’accesso verso quelli che considera i pilastri di un teatro dell’avvenire: il ritmo e il movimento legati alla dimensione divina e alle sue immagini. Le maschere sono inoltre il soggetto delle sue incisioni e costellano le pagine della rivista assieme a quelle di Ellen Thesleff, artista finlandese che collabora a «The Mask» e apprende da Craig la tecnica xilografica.

L’origine del legame fra teatro e maschera è da individuare in una dimensione ritualistica ovvero magico-cultuale. Nei primi decenni del secolo, l’antropologia osserva culture lontane nello spazio nelle cui pratiche e credenze sembrano apparire, in filigrana, le culture lontane nel tempo. Nelle danze cerimoniali degli indiani Pueblo descritte dallo storico delle immagini Aby Warburg, indossare la maschera vuol dire modificare e dilatare la propria condizione umana, per entrare in relazione con un’entità sovrannaturale affinché venga garantito cibo per la comunità o come gesto propiziatorio prima di una battaglia. Identificarsi mimeticamente con un’altra entità porta a una necessaria perdita di sé trasformando il proprio corpo in qualcos’altro. Le fotografie del fotografo ed etnologo Edward S. Curtis, realizzate in oltre trent’anni di lavoro per preservare la memoria dei nativi americani e che compongono la monumentale opera The North American Indian (venti volumi pubblicati fra il 1907 e il 1930), sono le principali testimonianze di questa dimensione extra-quotidiana.

Talvolta, la maschera nella danza perpetua il rimando tra umano e divino, rievocando in alcune esperienze emblematiche i processi mimetici dei rituali. È il caso del danzatore giapponese Michio Ito che, nello scatto di Alvin Langdon Coburn, indossa la maschera di una volpe. Il movimento catturato dal fotografo è sottile e la tensione dal busto sembra caricare l’espressione della maschera di un’intensità che traspare anche nell’immagine. Il danzatore, nelle cui coreografie confluiscono tecniche orientali e occidentali, tra cui la ritmica dalcroziana appresa nel 1912 a Hellerau, viene coinvolto nel 1916 da William Butler Yeats in At the Hawk’s Well, la prima opera del poeta ispirata ai drammi del teatro Nō. Sempre Coburn è l’autore delle fotografie in cui Ito veste il costume e la maschera del falco, che come quella della volpe sono realizzati dal disegnatore e illustratore francese Edmund Dulac.

La danzatrice tedesca Gertrud Leistikow nella coreografia Faun dance, in scena per la prima volta nell’aprile del 1911, propone ancora un altro impiego della maschera, declinandone l’uso verso la dimensione del grottesco – Groteske era infatti il termine con cui indicava tutte le sue danze mascherate. Inoltre, interpretando un ruolo per tradizione maschile, per di più con un costume che la copre quasi totalmente, fa emergere l’ulteriore possibilità della maschera di poter modificare o annullare l’identità sessuale del corpo che la indossa.

Anche Mary Wigman fa della maschera una vera e propria istanza artistica. L’11 febbraio 1914 a Monaco, nel contesto della prima dimostrazione pubblica del lavoro di Rudolf Laban e dei suoi allievi, va in scena il suo assolo, simbolo della danza espressionista tedesca: Hexentanz (la danza della strega), interamente eseguita a terra, con il volto coperto da una maschera, accompagnata esclusivamente da strumenti a percussione. Charlotte Rudolph, una delle maggiori fotografe di danza che con Wigman instaura una collaborazione ventennale, realizza delle immagini in cui la danzatrice appare come trasfigurata: la maschera diventa la soglia verso una sfera irrazionale.

Al pari di indossare un volto fittizio, anche altre modalità di alterazione della fisionomia del volto proiettano il corpo in un spazio altro, caricandolo di un linguaggio enigmatico, imperscrutabile, sacro. Il trucco e un minuzioso lavoro sulla mimica trasformano in maschera il viso stesso: ciò è evidente nello scatto del Dover Street Studio di Londra realizzato nel 1913, che coglie Vaclav Nižinskij, interprete di punta dei Ballets Russes, nel costume di Petruška, il burattino musicato da Igor Stravinskij e coreografato da Michel Fokine nel 1911. I ritratti sono oggetti interessanti da osservare, soprattutto quando il soggetto raffigurato è un danzatore, poiché lo privano del suo corpo e il movimento si condensa nello spazio del volto. In questo caso è nell’intensità dello sguardo amplificato dai segni dipinti sul viso: come rapito da un’allucinazione il danzatore non sembra tanto guardare in camera, quanto piuttosto attraversarla, penetrando direttamente negli occhi dell’osservatore.

Ancor più significativo l’uso del trucco nella ricerca di un altro esponente cruciale della danza espressionista tedesca, Harald Kreutzberg, che esplora nelle proprie danze pantomimiche figure demoniache e oscure con le quali aggancia ed esplora la sfera irrazionale. Lui stesso crea i propri costumi, spesso tuniche enormi, cupe, o che richiamano un immaginario esotico indefinito, da cui emerge il suo corpo reso bianco dal trucco.

Anche Hélène Vanel, danzatrice formatasi con Margaret Morris e artista eclettica legata al movimento surrealista intorno alla fine degli anni Trenta, realizzava le sue maschere. I suoi ritratti di fotografi non identificati rimangono misteriosi, disseppelliti solo nel 2010 dall’artista visiva Jessica Warboys nella Bibliothèque Smith-Lesouef a Nogent-sur-Marne.

La fotografia, come mostrano questi esempi, non è solo testimone di un processo controllato dal danzatore o dall’attore, ma è essa stessa coinvolta in tale processo. I fotografi sono sia spettatori di ciò di cui il danzatore è artefice, che co-artefici nel momento in cui riescono a mantenere attivo nelle proprie immagini un riverbero dell’azione osservata. Rudolf Koppitz, esponente della foto-secessione in Austria, specializzato nella cattura del movimento (Bewegungsstudie) e nel nudo, e Hedy Pfundmayr, danzatrice e attrice cinematografica austriaca, hanno collaborato nel 1928 esplorando a fondo questa capacità di riattivare e trasporre nel processo fotografico l’energia che lega maschera e corpo. Il fotografo riprende movimenti e pose di Pfundmayr con la maschera di Elettra, mettendo in risalto lo spazio che circonda la danzatrice, reso vivo dalle luci e dalle ombre che sovrastano e inglobano il corpo. L’immagine fotografica, così come la maschera, si fa vero e proprio campo di forze.

L’uso espressivo della luce gioca un ruolo essenziale nella produzione del Barone Adolf de Meyer, fotografo vicino al gruppo americano della foto-secessione animato da Alfred Stieglitz, e padre della fotografia di moda. La fotografia Dance Study, datata circa 1912, è uno dei pochissimi nudi realizzati dal fotografo. La maschera è un guscio essenziale di stoffa che copre interamente la testa accentuando fortemente il busto e le braccia nudi. La dimensione onirica evocata dall’immagine grazie alle luci morbide da cui emerge il corpo, ai valori chiaroscurali tenui e a un micromosso tipici della tecnica pittorialista, intensificano l’erotismo che pervade l’immagine.

La maschera non nasconde più il volto ma rivolge a lui i suoi occhi vuoti in alcune fotografie di nudo che Germaine Krull realizza negli anni Venti. Nella serie nominata Spuk, del 1923, una maschera è affissa al muro e il corpo nudo di Berthe Krull, sorella della fotografa, ne è dunque separato, ma i tratti stilizzati della maschera, la sua fissità, i suoi colori entrano in sintonia con la tensione del corpo e, viceversa, il movimento del corpo infonde vita a un oggetto di per sé inanimato.

 

As with his move ment, so is it with the expression of his face. The mind struggling and succeeding for a moment, in moving the eyes, or the muscles of the face whither it will;… the mind bringing the face for a few moments into thorough subjec tion, is suddenly swept aside by the emotion which has grown hot through the action of the mind. Instantly, like lightening, and before the mind has time to cry out and protest, the hot passion has mastered the actor’s expression. It shifts and changes, sways and turns, it is chased by emotion from the actor’s forehead between his and down to his mouth; now he is entirely at the mercy of emotion, and crying out to it: “Do with me what you will!” his expression runs a mad riot hither and thither, and lo! “nothing is coming of nothing.” [Edward Gordon Craig, The Actor and the Über-Marionette, «The Mask», vol. 1, n. 2, April 1908, p. 4]

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Mascherarsi, truccarsi, tatuarsi non significa, come ci si potrebbe immaginare, acquistare un altro corpo, un po’ più bello, più decorato, più facilmente riconoscibile; tatuarsi, truccarsi, mascherarsi è certamente un’altra cosa, è fare entrare il corpo in comunicazione con poteri segreti e forze invisibili. La maschera, il segno tatuato, il trucco, depositano sul corpo tutto un linguaggio: tutto un linguaggio enigmatico, tutto un linguaggio cifrato, segreto, sacro, che richiama su quel corpo la stessa violenza del dio, la potenza sorda del sacro o la vivacità del desiderio. La maschera, il tatuaggio, il trucco mettono il corpo in un altro spazio, lo fanno entrare in un luogo che non ha immediatamente luogo nel mondo e fanno di quel corpo il frammento di uno spazio immaginario che comunicherà con l’universo delle divinità o con l’universo altrui. Saremo afferrati dagli dei o dalla persona che abbiamo appena sedotto. Comunque la maschera, il tatuaggio, il trucco sono operazioni con cui il corpo viene strappato al proprio spazio e proiettato in un altro. [Michel Foucault, Utopie Eterotopie, a cura di Antonella Moscati, Cronopio, Napoli 2020, pp. 39-40 (conferenza radiofonica per France Culture del 21 dicembre 1966)]

 

Le danze mascherate, se a tutta prima ci appaiono come un contrappunto festivo alla sua vita quotidiana, vanno viste in realtà come pratiche magiche tese a garantire il cibo alla collettività. La danza mascherata, che noi siamo abituati a considerare come puro gioco, è dunque per sua natura una pratica seria, si può dire guerresca, nella lotta per la vita. […] Il cacciatore o l’agricoltore, mascherandosi, ovvero identificandosi mimeticamente con la loro preda […], credono di carpire in anticipo, grazie a una misteriosa metamorfosi mimica, quello che nel contempo si sforzano di ottenere anche con il loro razionale, duro lavoro quotidiano. La ricerca collettiva del cibo è quindi schizoide: magia e tecnica vengono qui a interagire. […]
Quando ad esempio un indiano imita nel suo costume mimetico le sembianze e i movimenti di un animale, entra in esso senza finalità giocose, bensì per carpire magicamente alla natura, trasformando il suo essere, qualcosa che mai spererebbe di ottenere senza ampliare e modificare la sua condizione umana.
In questa danza pantomimica l’imitazione è dunque un atto cultuale, una perdita di sé, un consegnarsi fideistico a un’entità estranea. [Aby Warburg, Il rituale del serpente, Adelphi, Milano 1998, pp. 26-29 (conferenza del 1923. Prima edizione 1939)]

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The face of the speaker should be as much a work of art as the lines that he speaks or the costume that he wears, that all may be as artificial as possible. […] The mask, apart from its beauty, may suggest new situations at a moment when the old ones seem exhausted. [W. B. Yeats, Four Plays for dancers, The MacMillan Company, New York 1921, p. vi]

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Le masque fait parvenir interprète et auditoire au point culminant d’une cérémonie, longuement préparée en vue de se concilier des forces bénéfiques ou de vaincre des démons, de capter des énergies d’un monde à l’autre. A travers le masque passe le souffle d’un au-delà irrationel, et dans la concentration d’une communauté tout entière livrée à l’accomplissement d’une rite, contemplant à travers des images une série de conc

epts connus d’elle seule […]. Terminé le rituel, disparue la communauté, l’object masque devrait disparaïtre. [Introduzione al volume Denis Bablet, Odette Aslan, Le masque. Du rite au théâtre, CNRS Editions, Paris 2005, p.13]

 

Il volto provvisorio

[…] Ma esiste un’ulteriore ipotesi per arrivare all’extra-quotidiano del volto: la maschera. Quando l’attore indossa una maschera è come se facesse uso di un corpo decapitato: rinuncia alla possibilità di tutti i movimenti e di tutti i giochi che la muscolatura facciale è in grado di fare. Scompare, con la maschera, l’enorme ricchezza del volto e si crea una tale resistenza fra il volto finto […] e il corpo dell’attore, che il fatto di trasformare il proprio viso in qualcosa di apparentemente morto può apparire come una decapitazione. […] Con piccole oscillazioni, misuratissime, con l’inclinare la maschera in determinati modi, si sfrutta l’incidenza della luce che cambia così le ombre: e un’appropriata tensione di tutta la spina dorsale riesce a conferire alla maschera un’altra possibilità di vita, quella che la sua qualità di oggetto sembra negargli a priori. [Eugenio Barba, Nicola Savarese, L’arte segreta dell’attore. Un dizionario di antropologia teatrale, Edizioni di Pagina, Bari 2011, pp. 152-153]

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Why should a dancer use a mask? Always when his creative urge causes a split process in him, when his imagination reveals the image of an apparently alien figure, which, as a part of his totality, compels the dancers to a certain kind of metamorphosis. […] The mask tries to blus the demarcation between the realistic and irrational levels. It can wipe out the shape of a human face and turn it into ghostlike features through schematic interpretations, or it can conjure up demonic features of man’s darkest fantasy in its exaggeration of any meaning form. [Mary Anne Newhall, Mary Wigman, Routledge, London/New York 2009, p. 106]